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sabato 20 aprile 2024

LA SERA DEI MIRACOLI O DELL'AMORE

 

- di Saso Bellantone

Quando si pensa all'amore, si riesce sempre a perdersi in un labirinto, in un vicolo cieco o in un sentiero interrotto. Ci si rifà ad antichi miti, a storie e leggende d'altri tempi o a semplici racconti di passate generazioni, di amici e conoscenti oppure sperimentati per mezzo della letteratura, del cinema o di qualunque altra dimensione artistica umana. Storia personale, cultura di riferimento, salute, esperienze e qualunque altro fenomeno appartenente al contingente viva il singolo individuo, si combinano a quelle narrazioni, generando così, per ognuno, precisi ideali, immagini archetipiche e folli fantasticherie concernenti l'amore, al di là delle quali, poi, non si riesce più ad andare. Condizionano a tal punto il proprio modo di pensare, sentire e fare, in una parola la vita, che rendono automatici, inerti, prevedibili come burattini e robot.
Si vive nella convinzione di conoscere esattamente, qui ed ora, la propria identità e quella altrui, nella certezza che tutto sia già scritto, inamovibile, marmoreo; nella sicurezza vittimistica che qualunque cosa sia precisamente così come la si percepisce e la si interpreta; che ciascuno abbia il proprio fato al quale, proprio come gli antichi uomini e dèi, è impossibile sfuggire, specialmente quando si chiamano in causa gli acciacchi del tempo, che si radicano nel proprio corpo come parassiti. Ci si addentra, così, in un quotidiano moto rettilineo e uniforme che, visto nella immutabile ripetizione di settimane, mesi, anni, diventa un eterno ritorno dell'uguale, dal quale è impossibile svincolarsi.
Tutto è uguale, tutto si ripete, ancora e ancora e ancora, e la stessa consapevolezza finisce col trasformarsi nelle ferree sbarre della volontà, utile ormai soltanto ad auto-rinchiudersi nella propria intangibile prigione. A volte se n'è consapevoli, altre volte no. Eppure, è innanzi a questo bivio che, spesso, si snoda il destino proprio e quello altrui. È il crocevia della scelta: o si decide di frantumare quelle sbarre o di restare confinati incessantemente dietro di esse.
Non è sempre facile, tuttavia, prendere una decisione, quando la propria consapevolezza coincide esattamente con la gabbia nella quale si è rinchiusi, con il grigio software che si ripete ogni giorno o con il buio impersonale che annienta costantemente ogni punto di riferimento. Perciò si rimanda, si rinvia, si posticipa all'attimo dopo e poi ancora a quello successivo e così via per tutti quelli seguenti, permanendo in tal modo in una fissità, una stasi, uno stallo paragonabile al puro niente, al non esserci, al non essere mai stati, al non essere qui ed ora, al non essere neanche in futuro.
Inutili diventano i segni e i segnali provenienti dall'esterno e dagli altri. Si è talmente insensibili e intorpiditi che qualunque cosa, avvenimento o gesto è privo di significato. Conta solo la cella, la certezza di stare dentro di essa. Tutto il resto, tutto ciò che è al di fuori di essa, non esiste, è finzione o immaginazione.
Così, emerge la stanchezza. Non la propria ma quella degli altri e in particolar modo di chi ci ama. Se prima tendeva una mano, regalava un sorriso, uno sguardo, diceva delle parole o compiva dei gesti, adesso non lo fa più. Perde il desiderio di andare a trovare chi preferisce la gattabuia alla vita e si proietta altrove, guarda da un'altra parte, rivolge i propri passi verso nuovi sentieri. Non, però, in balia della dimenticanza. Alla ricerca, piuttosto, del motivo, della ragione, dell'origine dell'annichilimento della persona amata e del segreto, in definitiva, dell'amore, di quel daimon che ancora lo possiede, che ancora orienta un'intera vita e che ancora chiede all'amata.
Si cerca ovunque, nelle strade del visibile e dell'invisibile, come cieco in un mondo privo di suoni, profumi, sapori e dimensioni. Non si trova mai risposta alcuna e si perde la speranza di poterla cogliere. Fino al momento in cui – quando ormai si è convinti che in un mondo silente, inodore, insapore e indefinito, la propria cecità è inutile – arriva la sera dei miracoli.

Un pub, un tavolo per due, due disabili l'uno di fronte all'altra: lei ha una disabilità fisica, lui psichica. C'è la musica: lui le canta una canzone, la guarda negli occhi, le tende una mano; lei lo ascolta, incontra i suoi occhi, prende la sua mano, la ruota di 180° e gli bacia il palmo.
Un poeta scrive versi su un effimero foglio. Li dona alla coppia, li ringrazia e, dopo aver lodato la loro bellezza, va via.
Lui esce fuori per cercarlo. Lo trova, lo ringrazia per i versi e chiarisce che la musica, la canzone, è ciò che li completa.
Il poeta torna dentro e si avvicina a lei.
Lei racconta di aver già infilato nella borsa i suoi versi e che, una volta rientrata a casa, li metterà nel diario segreto delle cose più belle.
Lui raggiunge lei e il poeta al tavolo. I due si guardano e lei dice: “C'è solo tanto amore. Siamo felici così. Ci piace dedicarci l'un l'altra le canzoni. Non vogliamo altro”.

Ecco che tutto è chiaro, indubbio, evidente. L'origine dell'annientamento della persona amata e il segreto dell'amore hanno la medesima risposta. Non si può solo dare, non si può solo ricevere. Occorre dare e ricevere l'un l'altra. Magari non sempre, non tutti i giorni, non tutte le ore e i minuti, ma ricordarsi, per esempio, una volta tanto, di andare in un pub, prendere un tavolo per due, dedicarsi l'un l'altra una canzone, prendersi la mano, guardarsi negli occhi, sorridersi e non volere nient'altro. Bisogna reciprocamente dare importanza alle piccole cose, ai dettagli, ai particolari.
Senza questa rimembranza, si finisce entrambi per rinchiudersi in celle d'isolamento separate, poi queste diventano monadi e infine si trasformano in universi, i quali, si sa, devono stare da soli e non possono conoscerne altri.

sabato 30 marzo 2024

PROPRIO COME NELLE STORIE


- di Saso Bellantone

Ormai è tutto abituale, monotono, insignificante. La Terra gira intorno al proprio asse e attorno al Sole, quest'ultimo sorge e tramonta ogni giorno, l'onda si riversa sulla battigia e defluisce. Sempre, di continuo, senza sosta. Tutto prosegue, nostro malgrado, muovendosi ciclicamente nelle medesime traiettorie, ancora ancora e poi ancora senza mai sbagliare il tiro, senza incertezze né ripensamenti. La strada è soltanto una, non importa se la si chiama “questa” o “quella”, è già segnata, chiara, trasparente. Non conosce punti di vista, gradazioni o sfumature. Procede sicura in avanti, verso il passo successivo, e ricomincia nuovamente là dove innumerevoli volte è già cominciata ed è già passata. La periodicità è uno dei tratti caratteristici della vita, una costante, un fato al quale neanche gli antichi dèi possono sfuggire. Figuriamoci gli esseri umani...

Si vive ogni giorno esattamente come quello prima e quello dopo. È tutto piatto, monocorde, monocolore. Si ripete qualunque pratica sempre nel medesimo modo: gesti, espressioni, intenzioni, parole, silenzi, percezioni, sensazioni, comportamenti, movimenti e stasi. Da un'alba all'altra e così via verso tutte le altre, si praticano incalcolabili azioni rituali che danno il ritmo, l'accento, la misura con la quale dare una logica al tutto, un senso, un significato ultimo alla vita in generale, alla propria e, dunque, a se stessi.

La ripetizione, tuttavia, svuota, espropria, spoglia di qualsiasi sapore, fragranza o chiave di violino si riesca a focalizzare nel giro precedente della ruota temporale che si ha disposizione. È una forza annichilente che cancella, rimuove, consuma senza lasciare traccia alcuna di quanto vi era prima. Proprio come fa il Nulla nel celebre film “La storia infinita”, tratto dal romanzo di Michael Ende (1979): conduce al niente, al punto zero, alla tabula rasa e lo fa di nuovo e poi ancora una volta e poi ancora ancora ancora...

È in questo modo che si diviene meccanici, automatici, involontari. Proprio come piccoli ingranaggi di un inestimabile orologio appeso a una parete che neanche esiste, del quale né uomini né dèi sanno leggere le lancette, ci si muove, uno scatto alla volta, convinti di non essere altro che quel “tic”, quel “tac” e quell'istante che intercorre tra di essi. Non si ha un volto né pensieri né emozioni. Ci si sente spersonalizzati, disumanizzati, eternamente stretti in uno stato di interdizione sprovvisto di vie d'uscita e porte d'emergenza. Proprio come nel trovarsi dentro una stanza senza porte né finestre, ci si chiede in quale modo ci si è finiti dentro, ci si domanda il perché e per quanto tempo ancora si è condannati a restare rinchiusi là dentro. Fino al momento in cui si viene privati anche dello stesso domandare ed il proprio segnale non è altro che piatto.

Ma proprio come nel film citato sopra e in tantissime altre belle storie, non è fatalmente così.

Ci sono incontri e accadimenti il cui fragore è come quello di un tuono in pieno giorno. Fanno un tale frastuono la cui energia finisce col penetrare dentro la carne e le ossa e oltre di esse e si stabilisce dentro, come seme dentro la terra. Quel granello germoglia pian piano, anche se non se ne è consapevoli. Cresce, cresce e diventa una pianta imponente, coi suoi colori, le sue foglie, i suoi fiori, i suoi frutti, i suoi rami, il suo tronco, le sue radici, le sue venature, l'insieme delle sue variegate forme, tutta la sua struttura. Un albero che dà naturalmente, in maniera incondizionata, involontaria, gratuita; che riempie tutto lo spazio che deve, nella terra e verso il cielo; che prende l'anidride carbonica che si espira, il veleno, e dona ossigeno.

Non ci si rende subito conto dell'azione risanatrice e ricostituente di esso. Lo si capisce quando i suoi frutti cadono dai rami e rotolano via alla ricerca casuale di altra terra, esattamente come quando dal ventre materno nasce un'altra vita. È la vita stessa che vuole vivere, che cerca altra vita e che, in tale ricerca, insegue se stessa. E quando lo si comprende, si è felici...

È proprio come nelle storie.

Quando si è felici, è, anche, il momento di dirsi addio.

Il viaggio è finito, la strada ha condotto alla sua meta, la battaglia si è conclusa e se ne è usciti, per fortuna, vincitori: non più arrugginiti ingranaggi senza volto né origine né destinazione ma pezzi unici con una inconfondibile aura appartenente ad un mondo invisibile, che vuole diffondersi, propagarsi, irradiarsi là dove non è ancora arrivata e vuole approdare; là dove c'è un ciclico buio che attende di essere rischiarato; là dove c'è altra terra che attende il seme.

Andate allora, cari amici, e siate il granello delle piante a cui siete destinati, proprio come quello che ci ha fatalmente accomunato. Lasciate che la vostra aura risplenda nei sentieri segreti del fato e, come ne “La storia infinita”, insegnate a chi vi tocca incontrare che non era Atreju a dover sconfiggere il Nulla ma era Bastian a dover decidere se credere, oppure no, nei sogni.

Addio...

venerdì 22 marzo 2024

IL LAMPO di Giovanni Pascoli



 - di Saso Bellantone

E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.

Il buio del pensiero è asfissiante, incalzante, improrogabile. Come ombra delle ombre segue ovunque. Non lascia scampo né riposo né solitudine alcuna. Come nemico immaginario, colpisce da qualunque direzione e in qualsiasi momento. Non c'è difesa né armatura né muraglia capace di fermare i suoi fendenti. Come nero manto di origine ignota, non c'è spazio che non sia avvolto, stretto, rinchiuso nella sua oscurità. Toglie il fiato, altera il ritmo cardiaco, modifica i sensi e la percezione delle cose. Incupisce, scurisce, occulta se stessi e le cose a tal punto da con-fondere vittima, labirinto e Minotauro, ritenendoli un tutt'uno. Ci si muove ciechi, dissennati, deliranti in cerca di quella fiamma, di quella luce, di quella stella che possa schiarire anche per un solo istante quello stato di anonimato, di incomprensione, di annebbiamento che avviluppa tutto e ci si ritrova nuovamente privi di vista, fuori di sé, senza ragione. Come Urobòro o un cane che si morde la coda, il buio del pensiero costringe senza sosta a fare i conti con esso. Obbliga a ottenebrarsi, a confondersi, ad annichilirsi. Vincola, ad occuparsi di esso. Non ci si può sottrarre, non gli si può sfuggire, non c'è redenzione. Si vive, così, alla ricerca, si procede a tentoni, tastando con mano le stesse tenebre nelle quali ci si muove, continuamente inconsapevoli se l'orientamento è quello giusto oppure è l'ennesimo errore. E poi, in un effimero istante, ecco la luce. Come in un battito di ciglia, si apre una prospettiva ampia e meravigliosa e si ritira repentinamente nel buio. Si vede tutto, nel silenzioso clamore di quell'apertura inattesa. La terra spossata, ammaccata e ancora viva; il cielo traboccante, fatale e deperito; una casa candida, incontaminata, innocente.

Nella poesia Il lampo di Giovanni Pascoli, è possibile riflettere sul nichilismo e su cosa vuol dire pensare a partire da esso, dentro di esso e nel tentativo di trovare una via d'uscita. Quest'ultima non è scontata e dipende dalla prontezza del soggetto che pensa di cogliere ciò che si apre in un'illuminazione improvvisa, paragonabile a un evento naturale, come per esempio un lampo che rischiara per un attimo la/nella notte buia.
Questo chiarore passeggero offre la chance di mettere a fuoco alcuni elementi-chiave che consentono di orientare il pensiero, prima che torni nuovamente l'oscurità del nichilismo, e di prendere una scelta:
- la terra, simbolo della storia, colma delle ferite provocate dalla fatica del lavoro e dagli eventi politici e sanguinosi che si sono susseguiti nella storia dell'umanità;
- il cielo, simbolo della metafisica, strapieno di interpretazioni portatrici di catastrofi al genere umano, ormai guasto, che ha esaurito la sua antica funzione;
- la casa, simbolo della mitezza, della semplicità, della genuinità, della trasparenza;
- l'occhio, simbolo del vedere, del pensiero;
- la notte nera, simbolo appunto de nichilismo.
È a partire da questi punti di riferimento che, in balia del nichilismo, è possibile pensare all'occasione di trovare una via d'uscita da esso. Forse Pascoli non la trova. Anzi, pare che ai suoi occhi il nichilismo sia un dato di fatto, una certezza che torna ad essere un punto di riferimento nel sottrarre qualsiasi stella polare con la quale orientare il proprio pensiero. Forse lascia al singolo individuo l'eventualità di operare una scelta a partire da quei concetti-chiave, dei quali definisce il senso e la funzione con pochi termini Forse indica nella casa la nuova stella polare con la quale indirizzare il pensiero, all'interno del vicolo cieco che è il/nel nichilismo. Forse...

lunedì 20 novembre 2023

GRUPPO 5 TFA

 


Io non so gli altri come vivono gli avvenimenti. Io so che li vivo, intensamente. Anzi, intensa-mente. Nell'oscuro scenario del post-moderno, immersi nella tabula rasa di volti, orizzonti e stelle fisse che è il qui ed ora, a me gli eventi e gli incontri parlano chiaramente, come fiore che nasce in mezzo al deserto. Ed è subito l'aurora.

Ho frequentato per mesi il TFA sostegno e sembrava di stare a Chongqing, in Cina, là dove c'è l'incrocio di strade più complicato del mondo. Cinque piani e quindici sopraelevate che moltiplicati per due (andata e ritorno), danno metaforicamente il numero dei colleghi frequentanti il mio corso di specializzazione. Gente proveniente da ogni regione d'Italia, ognuna con la propria storia, le proprie motivazioni, il proprio sguardo rivolto al domani. Tutti impegnati a seguire le lezioni dall'alba al tramonto, ogni giorno, e poi ogni fine settimana, per fare esami, in una irrefrenabile corsa contro il tempo, gli impegni e le varie scadenze personali, accademiche, lavorative e familiari.

È stato un viaggio sfiancante, lontano da sé e dai propri cari, in direzione della tanto auspicata meta qual è il titolo di specializzazione. Un itinerario fatto sempre dalle medesime tappe, tuttavia, sempre diverse, perché condiviso con un gruppo speciale, a bordo del pullman 5, con solo nove posti. Cambiava solo l'autista: il docente di turno, che ogni volta ci ha condotto in un nuovo territorio del mondo della conoscenza. Ma quei nove posti erano predestinati, come i numeri sulla scala di Fibonacci.

Con tali compagni, il crocevia si è trasformato in un sentiero nel bosco e la meta in una radura, in una consapevolezza altra: tutto è scritto con inchiostro simpatico sulle pagine invisibili dell'ignoto, e si può leggerle soltanto senza vedere.

Come viva musica di un vecchio vinile, ricorderò tali indimenticabili compagni sempre a bordo di quel pullman, unico e raro, ma stavolta verso nuove destinazioni: il Gruppo 5 TFA.

Buon proseguimento amici, allacciate le cinture...

venerdì 4 novembre 2022

Feo, Erasmo, Nietzsche e Bataille


- di Saso Bellantone

Un cane, un Folle, un nichilista e un antiutiliritarista.

Sembra già un accostamento folle ma in realtà tale avvicinamento è più dell'apparenza. È, Follia. Follia con la F maiuscola, di quella buona, Erasmo docet.

Crediamo ormai sia sempre un male, una colpa, un peccato a causa del quale vediamo sbarrata la porta per il paradiso, il valhalla o qualsiasi altra speranza le civiltà umane o singoli individui abbiano prodotto nel corso del tempo, con ragionamenti austeri o stupefatti. Eppure, al di là della latitudine e della longitudine, delle mode e delle abitudini, del dna e della cultura, della provenienza e delle chance, del potere e della sua povertà, del destino e del caso, la Follia può “anche” essere un bene, un pregio, una virtù. Dipende da quale lato e con quali occhi si guarda.

La società nella quale viviamo, a nostro piacere o meno, ci abitua, e ci impone, fin da piccoli, a impiegare soltanto una sguardo, un paio di occhiali, una sola prospettiva e per questo motivo non siamo mai necessariamente pronti, preparati – o predisposti, per quei pochi s/fortunati – a cambiare veduta, lenti o angolazione. Leggiamo gli eventi della vita, la nostra e, naturalmente, quella di chiunque altro passi al nostro fianco – sia quest'ultimo fisico, virtuale, ideale, patologico o mediatico – così come ci è stato insegnato a casa, nelle chiese, a lavoro o in qualsiasi altro luogo della società, sia un pub, la parrucchiera o un supermercato. Interpretiamo gli accadimenti nella maniera in cui siamo stati educati, allevati, cresciuti, ispirati e civilizzati, e lo facciamo per essere inconsapevolmente numerati, cifrati, micro-chippati e dunque essere pre-visti, calcolati, pronosticati, preventivati e catalogati, per essere tradotti, infine, in parti di equazioni inimmaginabili che ingrossano i conti di pochissimi; quei visibili/invisibili, in abito ying e yang, talmente divini da pagare altri per tirare i fili delle nostre scelte e del nostro eterno dannato presente, mentre bevono assieme a noi un drink o si riscaldano con noi al fuoco di una brace provvisoria e periferica.

In questo panorama, non siamo capaci di mettere assieme un cane, un Folle, un nichilista e un antiutiliritarista. Tantomeno di dichiararci, o ritrovarci, Folli. A meno che, non sperimentiamo, realmente, la loro intrinseca connessione.

1) Feo è stato il mio cane. Non c'è altro da dire – la sua storia, la nostra storia, i suoi bisogni, i miei bisogni. Era mio ed io ero suo. Probabilmente, io ero il suo cane.

2) Nel tempo della morte di Dio nietzscheana, la perdita è una delle parole chiave che caratterizzano la nostra esistenza e l'esistenza in generale.

3) La nozione di dépence batailliana è quel punto di vista che consente di mettere a fuoco l'impensabile e tale nozione è sempre un giudizio sintetico a posteriori.

Partiamo dal punto 2.

La morte di Dio nietzscheana, enunciata nel celebre aforisma 125 de La gaia Scienza, tra le tante cose, sottolinea, ricalca, mette a nudo il concetto di “perdita”: azzeramento dei vecchi valori, da un lato; possibilità/impossibilità di qualsiasi piramide valoriale, dall'altro lato. In ogni caso, quel che vien meno, è la certezza di qualcosa, di un punto fisso, di una stella polare che possa indirizzare il nostro vagare o le nostre scelte. Brancoliamo nel buio.

Eppure in questa cieca erranza, continuiamo a sperimentare nella carne e nelle ossa la perdita. Perdiamo il ventre materno, perdiamo l'infanzia, l'adolescenza e tutto quanto vi è connesso: amori, amicizie, speranze, sogni, prospettive, qualsiasi rapporto e relazione. Perdiamo l'importanza che diamo a un genitore, a un parente, un amico o una persona amata. Perdiamo le passioni, i piaceri, i modi di vivere e di pensare. Perdiamo le abitudini, gli usi, il modo di vestirci e la gente da frequentare. Perdiamo l'autobus, il pronostico, il treno che passa una volta sola, il senso dell'orientamento. Perdiamo continuamente la nostra identità e quella che diamo a qualsiasi altra cosa, avvenimento, persona ci sfiora. Viviamo, quindi, la perdita come un principio regolatore dell'esistenza pur essendone inconsapevoli, e proseguiamo il nostro incerto girovagare in direzione di un orizzonte che abbiamo perso già prima di averlo pensato, oltre che visto di sfuggita. Non facciamo altro, in estrema sintesi, che vivere perdendo tutto, nulla escluso, assuefatti dalla sensazione del perdersi per perdersi nuovamente e ancora, ancora... Per questo motivo, niente e nessuno può essere o rappresentare quella feritoia, quel battito d'ali o di ciglia utile per ritrovare se stessi. Perché ciò che perdi non è più tuo e perché ciò che perdi non sei più tu.

E così veniamo al punto 3.

Eppure c'è qualcuno, e non un qualcosa, che vive la perdita in maniera batailliana, come pura perdita, Pura con la P maiuscola, proprio come la Follia di Erasmo. Qualcuno per cui “perdita” non è che un altro modo per dire “dono”. Perché è un dono questo qualcuno e qualunque fatto si possa sperimentare, assistere, vivere assieme a questo qualcuno.

Per questo qualcuno, è un dono perdere il potere di decidere di sé, dei propri tempi, dei propri spazi, della propria vita in toto. È un dono perdere il potere del capobranco, di quel che c'è da fare, dei luoghi dove andare, così come delle persone da incontrare, delle regole da seguire e di quelle alle quali ribellarsi. È un dono perdere la propria natura, i propri istinti, la propria animalità. È un dono qualunque cosa faccia, bella o brutta che sia: starti vicino, quando non vuoi nessuno al tuo fianco, e riempirti di tante di quelle attenzioni innanzi alle quali un altro essere umano è cieco; romperti le scatole, in quei momenti in cui non desideri altro che non avere nulla a cui pensare, e darti tante di quelle responsabilità innanzi alle quali, se solo fossero di natura umana, passeresti dritto. È un dono, a ben vedere – avendo gli occhi per vedere, naturalmente –, anche soltanto avere questa possibilità, quella cioè di stare al fianco di questo qualcuno per il quale qualunque cosa accada è un momento di gioia di stare con te, è un attimo di difesa, di te, è un istante bello, semplicemente perché è con te.

Ma se questo qualcuno fosse umano, non sarebbe niente di quanto detto finora.

E così veniamo al punto 1.

Feo era un dono e anche la sua perdita lo è. Te ne rendi conto solo a posteriori, perché il suo “non esserci più” mostra la sua essenza, e la tua. Ti fa capire di essere, di continuare a essere, “anche” ciò non hai più e di non essere più quel che eri prima. Ti fa rendere conto che tornerai a muoverti alla cieca, perché non era lui ad essere tuo ma tu ad essere suo. E adesso, non sei più la sua proprietà, non hai più una zavorra che ti tiene coi piedi per terra, non hai più stelle fisse.

Feo era un dono non umano, inumano, sovrumano. Se avesse avuto anche la minima parvenza umana non sarebbe stato un dono e non lo sarebbe neanche ora che non c'è più. Perché il dono che ti lascia è il pensiero: a lui, e a te. Così rivedi un'intera vita, da una parte, e l'ignoto, dall'altra.

Feo era la risposta alla morte di Dio nietzscheana, alla perdita cosmologica e antropologica dei valori, al nichilismo che palpita nella terra e nella carne. Era la dépence, la perdita, però in segno positivo: un dare continuo senza voler ricevere nulla in cambio. Un dare e basta che riempiva il niente, il vuoto di Dio. E adesso quel vuoto rischia di restare incolmabile, di nuovo, ancora, senza la Follia di Erasmo. La Follia che ha scandito il nostro percorso, fin che Feo c'è stato, la Follia che deve continuare a dare un senso al percorso, anche adesso che non c'è più. Quella Follia che manca alla società, e alle civiltà, per invertire la rotta e riscoprire, ricordare, rispolverare quanto di buono c'è, o è rimasto, nell'umanità e in ognuno di noi.



lunedì 16 dicembre 2019

SE TARDANO O NON ARRIVANO



- di Saso Bellantone


Restano e volano,
come piombo e piuma,
se le spingi permangono,
se le soffi si perdono,
come piombo e piuma,
le parole
uccidono e salvano,
se tardano,
o non arrivano,
lo stesso,
feriscono.

domenica 3 novembre 2019

TRASPARENZA



- di Saso Bellantone

La trasparenza è limpida, come acqua sorgiva. Chiara, come la luce. Nitida, come paesaggio senza nebbia. Non ha sfumature né imprecisioni. Brilla, senza macchie e imperfezioni.
La trasparenza è pulita, come isola sperduta nell'oceano. Cristallina, come oasi nel deserto. Innocente, come stella remota. Non conosce polvere né inquinamento. È pura, mai infetta e senza contaminazioni.
La trasparenza è sana, come albero da frutto. Dolce, come il sorriso di un fanciullo. Delicata, come i sogni degli adolescenti. Resiste, desiderosa di vita. Vuole se stessa, oltre le cadute e le ferite.
La trasparenza ha cura di sé. Si rialza, si ristabilisce. Cerca l'armonia, con tutto ciò che la circonda. È attenta, a chi le sta attorno. È buona, affettuosa. È soffice, come il cotone e le nuvole.
La trasparenza conforta, calma, rassicura. Guarisce e incoraggia. Dà la pace, stimola. Dà fiato, come l'aria. Lava, come l'acqua. Rinvigorisce, come il fuoco. Fortifica, come la terra.
La trasparenza è il contesto, l'ambiente, l'habitat proprio dell'essere umano. È in essa che quest'ultimo entra e resta in contatto con la propria essenza. Con ciò che è veramente. Con la propria identità.
Essere e realtà sono due facce della stessa medaglia. Sono trasparenti, manifesti, palesi, e l'essere umano per essere tale non può evitare di trapelare, mostrare, rivelare se stesso.
Il “chi” dell'essere umano si diluisce, si amalgama nel “che cosa” emerge, si presenta, si esibisce di lui stesso. L'essere umano è tutto ciò che ostenta, espone, mette in mostra. È ciò che fa vedere, che sbandiera, che sfoggia e che vanta e, tuttavia, è convinto di essere anche tutto ciò che nasconde, eclissa, insabbia e, per questo motivo, è frainteso, travisato, non è capito.
Dagli altri.
Questo è il nodo cruciale della questione, il problema di Aladino, il labirinto in cui ci si perde. L'oblio di essere inevitabilmente immersi in un luogo, spazio-tempo, ecosistema regolato dalla trasparenza, in cui ci sono anche “gli” altri. In cui “si è con” gli altri.
“Io giudico gli altri in base a quel che vedo e a quel che gli altri mettono in mostra”, è così che l'essere umano giudica senza esitazione. Dimentica a priori, però, che lo stesso, all'inverso, vale per lui, e cioè che oltre ad essere colui che giudica è, nel contempo, anche colui che è giudicato dagli altri “in base a quel che loro vedono e a quel che lui mostra di sé”. Dunque, in un caso e nell'altro, si permane nelle lande della trasparenza, di ciò che è visibile, osservabile, toccabile con mano: a partire da questa sfera ed entro tale dimensione si giudica e si è giudicati.
Il fraintendimento, il malinteso, l'equivoco, in questo quadro, non è altro che un'illusione, una giustificazione, una farsa. Convivendo nello stesso habitat con gli altri, tutti al di sotto della fatale legge della trasparenza, non si può pretendere di giudicare in base a quel che si vede e di essere mal interpretati perché non si è manifestato quel che si cela, si camuffa, si occulta. Si è, e quindi si giudica e si è giudicati, per mezzo di quel si vede/si mostra nel contesto comune. Si è mediante i fatti osservati/compiuti e se si dimentica, o si sceglie consapevolmente, di svelare ciò che si custodisce nel segreto non si può poi sostenere di non essere capiti in toto e di essere stati travisati. Si è sempre la trasparenza manifesta, sia nel caso in cui si vesta i panni dell'io, sia nel caso in cui si vesta i panni degli altri.
L'ironia della sorte, o meglio della legge della trasparenza, è che in quest'ultima non esistono equivoci né abbagli, neanche se si decide di nascondere agli altri “parte di sé”, ossia tutto quello che può essere definito come “segreto”. Quest'ultimo infatti, e cioè la scelta di celare ad altri la pienezza di sé, traspare, trapela, emerge lo stesso come “ciò che non è reso manifesto”, che non è stato palesato, mostrato; affiora come “ciò che è stato occultato”, che è stato mascherato, velato. Malgrado sé, il segreto spunta fuori come sudore, aria espirata, energia emanata. Come ciò che c'è nonostante si scelga volontariamente di non mostrarlo. Il segreto filtra, gocciola da sé come l'invisibile che è visibile. È trasparente, ed evidente. Indubbio.
Non ha senso dunque alcuna pagliacciata, maschera e autocommiserazione. Splende anche quel che si lascia nell'invisibile, nell'immateriale, perché tutto è traslucido, opalescente, incontaminato.
Si è sempre trasparenti e la trasparenza che si è resta sempre esposta all'alterità nella sua fattualità. Si è i fatti compiuti e non compiuti, narrati entrambi dalla propria presenza, e il linguaggio può fare poco se si è scevri di tale consapevolezza o si tenta di aggirarla. Il linguaggio ha potere soltanto se si abbraccia la consapevolezza di essere trasparenti, esposti, fattuali, soltanto se si comprende che l'habitat nel quale si vive può essere abitato esclusivamente secondo questa regola inevitabile: tutto traspare, tutto è evidente, tutto è fattuale, concreto, tangibile.
Bisogna avvinghiare questa fatalità, vivere pienamente coscienti di essa.
Se la si evita, o si fa finta di nulla, traspare.
E traspaiono anche le ragioni.
E quando queste ultime non ci sono, o sono superflue, emerge la verità.
Nient'altro.

venerdì 25 ottobre 2019

IO NON GIOCO A DADI



- di Saso Bellantone


La luna tace
eppure parla la sua luce;
il sole sembra una lumaca,
cammina piano, con le antenne tese.
Si fa giorno
eppure resta ancora notte,
dilaga il frastuono
ma divampa il silenzio nei suoi intermezzi.
I piedi senza stasi,
le ombre fuggono all'indietro,
l'aria non picca,
la bandiera è bianca.
Chiarisce tutto la luce
ma l'ignoto sogghigna,
una spalla mi tocca
ma sa già che non gioco a dadi.

lunedì 14 ottobre 2019

L'APNEA È UN CAPITOLO CHIUSO



- di Saso Bellantone

Riemergere.
Respirare.
Non si può trattenere il fiato per sempre.
È una legge naturale, malgrado si continui a credere che si un'opzione. Si è sicuri, anzi, che l'apnea sia il proprio modo d'essere, la propria natura, e, forti di questa certezza, pur incrociando grandi intuizioni, passioni o scoperte rivoluzionarie, alla fine, o si torna a galla o si muore.
È sempre così.
In qualsiasi sfera della conoscenza o della vita decida di fare la sua nuotata, l'essere umano deve decidere se abbandonarsi all'istinto di riprendere fiato o inabissarsi.
Sceglie sempre, tuttavia, di sprofondare, intontito dalla mancanza d'aria, scambiando involontariamente poli e stelle fisse: la follia gli appare come ragionevolezza, l'artificiosità come naturalezza, l'egoismo come altruismo, il male come bene, l'odo come amore, l'orrore come il sublime.
E si perde.
Perennemente in balia delle maree abissali, sbattendo tra gli scogli, incastrandosi tra le alghe e azzannato dagli squali, l'essere umano tenta ancora un'ultima bracciata e un ultimo colpo di pinne nella speranza di raggiungere il relitto che custodisce il forziere.
Eccolo.
Finalmente gli si trova innanzi.
Ancora una bracciata.
Lo tocca.
Prende la chiave che è nella sua anima.
La inserisce.
Gira.
Apre lentamente...
...e un turbinio di onde e flutti lo strappa dagli abissi del mare, riportandolo alla luce del sole, all'aria, contro la sua volontà.
La rabbia e la delusione rendono ciechi.
Poi, però, subentra il respiro.
L'essere umano comincia a riempirsi d'aria.
E ancora e ancora.
E il bagliore comincia ad affievolirsi finché si abitua nuovamente a vedere.
E vede che niente è come prima.
Tutto è all'inverso rispetto a come lo ricordava.
Anzi, forse adesso tutto sta dove deve.
Al proprio posto.
In ordine, chiaro, senza sfumature né sbavature.
Respira ancora l'essere umano.
Se ne rende conto e adesso vuole continuare a farlo.
Avidamente.
Senza sosta.
Ancora.
E ancora.
Perché ogni respiro chiarisce le cose...
Tutto era capovolto, prima, illuminato male, privo d'aria, stantio.
E adesso niente è come credeva.
Neanche lui.
Ma ora l'essere umano lo sa.
Sa chi è e sa bene che l'apnea non è la sua natura.
Sa di essere fatto soltanto di aria e che l'aria stessa simbioticamente è intrisa della sua essenza.
Adesso, sa che il forziere non esiste e che il tesoro, in realtà, è il respiro.
L'apnea è un capitolo chiuso.

martedì 5 febbraio 2019

DOVE FINISCE IL MARE



- di Saso Bellantone

Il mare non finisce sulla battigia né all'orizzonte. Finisce altrove, in un luogo cioè dove il mare non è più e, al contempo, non è ancora.
Malgrado possa sembrare continuamente identico a se stesso, anche il mare infatti è soggetto al tempo e al cambiamento. Sono i nostri occhi a non riuscire a vedere le cose in maniera essenziale.
Il mare si muove, si altera, va verso la sua fine, in quell'ambiente che, contemporaneamente, custodisce la possibilità del suo rinnovamento, del suo ricominciare. Finisce, perché là dove c'è la sua fine c'è, anche, il suo inizio.
Il mare appartiene a questo spazio che salvaguarda la sua fine e il suo inizio. Gli è legato perché senza di esso, nel suo assiduo mutare, non potrebbe tornare a essere se stesso.
Questo luogo che completa il mare, che lo rifinisce, è molto vicino eppure è anche molto lontano. È invisibile ad occhio nudo, non si può toccare con mano e tuttavia c'è, là, nei pressi del mare, e anche qua, distante da esso. È un ambiente ignoto, afono e inodore, per certi versi miracoloso, che là e qua fa sentire la voce e il profumo del mare, il suo richiamo.
Il mare chiama, convoca a sé per mezzo di questo spazio che lo ritocca, che nel farlo finire cioè lo fa iniziare di nuovo; attira l'attenzione, perché nel suo andare e tornare ha sempre qualcosa da dire.
Il mare non ha linguaggio umano eppure parla con le sue onde, le sue maree, la sua apparente stasi, la sua fragranza e si fa capire. Da tutti. Solo che tutti, poi, dimenticano quello che ha detto.
Il mare racconta del suo legame, della sua appartenenza a questo luogo che non lo fa essere più e non lo fa essere ancora, narra di questo ambiente invisibile e intoccabile che lo trasforma e che in questo modo trasmette il suo richiamo.
Il mare parla del tempo e del cambiamento, al di là di un'apparenza eternamente identica a se stessa; parla del finire e del ricominciare. Ecco perché non finisce sulla battigia né all'orizzonte, perché la sua fine, e cioè la possibilità del suo nuovo inizio, non si trova su di un piano, appunto, orizzontale.
Il mare finisce nell'aria, in ciò che è immateriale e intangibile e che, tuttavia, è percepibile. Ma l'aria è anche l'atmosfera e lo spazio profondo.
Il mare finisce nel mistero dell'universo ma è proprio là, così come qua, nell'essere umano, che, perfino, comincia.